Pensai che fosse Adieu e lo dissi. Per il suono bello di parola.
Non francese nè italiano la pensavo sotto mano in tutt’altre faccende affaccendata. Affascinata. Uscire dalla bocca dal naso nella piazza. C’entro stanza in centro casa nella doccia nella strada nella pancia.
Che non è prezzemolo tritato detto scontato e poi soffritto del dio presso presunto dappertutto, che poi dopotutto ci arriviamo in fine a quella meta della corsa col fiatone al filolana e che sia lontana lontana lontana.
Che non è definitività e sconcerto. Non di tessuto un orlo di chiusura per trama di reciso ordito.
Non il tratto sfilacciato in O serrata che a labbra strette blocca gli occhi dritti al vetro fissi e aperti. Il nero che dal cielo cala a seppia e falce rozza vibra in morso e mozza.
Non è filo alle Parche filato e tagliato. Non è l’appuntamento mancato al fiume al lago nel regno perduto di là da venire. Sali scendi di nuvole e frigo intinto nel mare finito. L’oltre finto infinito infinitamente cessante. La morte.
Adieu è come andare verso un presso e lungo un luogo. Luogo d’eu che sa di buono e caro come pane con saluto che s’impregna di partenza e lento movimento da sfrenare.
Allentare dolce presa che rilascia e lascia andare ogni intermezzo noi di cosa perché vada poi per suo cammino serenamente insieme e bene.