Commento a "Nota sulla poesia dell'anima"
Questo il link del post di riferimento http://erodiade.splinder.com/post/8882989
Ho letto più volte la tua splendida nota Erminia e non perchè la condivida in toto, ma per meglio comprenderla e metabolizzarla, poiché ne trovo l'argomentare interessante e lucido, convinto e convincente.
Nulla tuttavia m'induce a credere che io possa pienamente sposarne il senso; non certo attualmente impantanata come sono in quella che tu definisci "poesia dell'anima" o "poesia che non va" ovvero ancora "pietosamente poesia dell'autoinganno" (definizione quest'ultima davvero efficace), né d'altra parte che io possa farlo in futuro.
Sposare l'atteggiamento critico contenuto nel tuo scritto in ogni suo enunciato infatti significherebbe abdicare rispetto a scelte che permeano, o comunque di frequente emergono in modo diretto o indiretto, nelle espressioni letterarie di un autore che parla d'oltre e d'assoluto, scelte che non sono atteggiamenti e costruzioni di stile ma costituiscono il substrato della propria formazione morale e spirituale e dei propri convincimenti interiori.
In primo luogo per un poeta dell'anima significherebbe disconoscere il credo, tanto radicato e profondo quanto cieco, ottuso, deprecato, orgoglioso, presuntuoso (così almeno secondo possibili definizioni di coloro che non credono) dell'esistenza di un'esistenza trascendente, che poi significa ammettere l'esistenza di una parte umana non corporea, e quindi di un'anima, che poi significa pure credere nell'esistenza di un essere creante, eterno, onniscente, onnipotente. Nel loro insieme o, a seconda delle circostanze, presi in considerazione ad uno ad uno, questi convincimenti rappresentano quell'Altrove "che da qualche parte deve pur stare, quasi certamente di celeste" che tanto spesso appare nella poesia e nell'espressione letteraria in genere, che tante volte costituisce il rifugio dal dolore, la speranza in un regno che debba venire o sia da raggiungere o, se si vuole, più pragmaticamente e laicamente, debba essere costruito su questa terra, dove impereranno supreme: pace, giustizia e verità, e ancor prima e più importante di tutti Amore, ovvero l'interesse di tutti, oppure di Uno, per tutti, in dosi tali da soddisfare pienamente quell'inesauribile bisogno di tutti. Insomma un'utopia in terra e una speranza, non so quanto fondata, in cielo, ma comunque la si metta si tratta pur sempre di un Altrove in contrasto appunto al mondo reale che appare sempre più truce, orrido, in rovina, (rovina che è un continuo divenire, intensificarsi, precipitare senza fine da secoli e secoli) che tale appare spesso, se non costantemente, anche agli occhi dei poeti dell'anima.
Del resto mi sembra che una poesia dell'anima esista da sempre, dal suo stesso nascere come genere, probabilmente perchè nella ricerca interiore l'uomo non può prescindere dal confrontarsi con argomenti che non hanno risposte in termini di prova e certezza e, pur quando siano affrontati con fede, conducono a convinzioni che si alternano sempre a fasi di dubbio; il dubbio apre la strada al desiderio, alla tensione, all'aspirazione e, per questa via, alla poesia dell'anima che, pur quando sia espressa in termini di certezza, tale quindi da apparire una "verità assoluta", rappresenta sempre, o almeno frequentemente per quel che mi riguarda, un sogno, una visione, una proiezione, una speranza d'eternità.
D'altro canto non è il fatto di negare il valore della poesia dell'anima a riportare certamente e per converso la poesia ad essere una poesia "d'ora e di storia" (bellissima definizione anche questa); una poesia di divenire e negazione di verità assolute, che si rapporta al presente, alle individualità, al circostante, poesia del relativismo e delle tenebre contro la poesia della luce che è appunto la poesia dell'anima, quella che non va. Non è detto che il solo fatto di rapportarsi così diversamente al presente ed alla poesia di per sé sia utile a fare della poesia e una poesia che vada. Casomai questo permetterebbe una poesia più vicina al presente Non è detto che sia questo presente giusto il tempo di una poesia delle tenebre o per meglio dire, solo di tenebre.
Perchè non pensare invece ad una poesia di tenebre e luce, di ora e d'allora, di presente e di storia, di verità e dubbio, d'assoluto e d'orrore. Una poesia che sia esattamente com'è l'uomo: una mescolanza inestricabile d'eccelso e di fango, d'escrementi di cane e polvere di stelle? Perchè costringerlo sempre e comunque a strisciare raso terra, a confrontarsi con la realtà, a vederla quale essa è, a non poterne e volerne una diversa attuale o futura, empirica o trascendentale comunque migliore? Perchè impedire allo spirito di volare, oltre il dubbio, l'incertezza, il dolore, la nefandezza di cui l'essere umano, è capace, anche se questo significhi rifugiarsi nell'illusione? Non è forse dalla fantasia, dall'immaginazione, dalla speranza, da quelle che in definitiva gli increduli definiscono illusioni, che muovono le più grandi rivoluzioni? Privilegiare uno sguardo di disincanto e crudezza, di praticità e realismo non significa ancora di più costringere il pensiero a volare basso a guardarsi nella pienezza della propria infamia impedendo qualunque forma di catarsi, liberazione, speranza o illusione di riuscire ad essere o diventare noi stessi (singolo e collettività) migliori?
Non ti sembra che, posta in questi termini, la poesia dell’anima diventi la più radicale forma di dissenso politico?
Diverso il discorso sul cercare altri e nuovi modi di far poesia dissidenti o alternativi o relativisti, minimalisti o di debole pensiero, scientemente votati a negare ogni afflato lirico, verticalità e intimismo e preferire una ricerca che
“Non sempre trova rime
che siano adeguate
a disporre sul foglio
le stime meditate”
e
“discorsi nuovi
che non sian triti enigmi
vuoti rebus e sciarade
d'una sciatta retorica
che sfiata, stracca e vecchia.”
E’ libera la strada della ricerca e non è una sola e molte strade devono essere battute per trovare una via maestra.
D’altra parte ritengo (secondo i saggi insegnamenti di Stefano dei quali ahimè spesso constato sulla mia pelle la verità) che ogni qual volta si cerchi di fare della poesia strumento nelle mani dell’autore essa perde gran parte del suo fascino per diventare arnese e dunque materia pratica piuttosto che eletta, efficace più che maledetta, né ombra né luce ma realtà e presente, singolarmente rigida incapace di decollare, trasportare, coinvolgere. Materiale inerte forzato entro i limiti angusti dell’idea/ideologia che si vuole esprimere. Non intendo ovviamente che la poesia non possa avere forti messaggi politici, ma non sarà bella poesia quando essa sia strumento nelle mani del poeta bensì lo sarà quando nell’intimo, nel profondo, nel costante pensiero del poeta, di quel poeta, alberga potentemente l’esigenza di manifestare il dramma che lo squarcia, l’ansia che l’attanaglia, la protesta che lo rode e che si fa in parole poetiche preciso messaggio politico/ideologico, tanto più forte e coinvolgente quanto forte è l’esigenza che macera l’animo dell’autore.
Diverso ancora e infine il discorso di coloro che fanno poesia dell'anima e perciò stesso ritengono d'essere una categoria d'eletti (credo d'aver già espresso il mio pensiero circa un'elezione che più che altro ai miei occhi, in un vero poeta, appare piuttosto come una "maledizione) che chiusi in esclusiva casta guardino con disprezzo il mondo degli "altri" ".
In verità quando far poesia diventi un atteggiarsi, un porsi in maniera superiore altezzosa rispetto agli altri, allora davvero di poeta e poesia non è rimasto più niente in quel gruppo di presunti "eletti" se non un saper districarsi con artificio nell'uso delle parole e dintorni alla ricerca di una bellezza delle parole che è falsa perchè muove dall'aridità del cuore e delle mente di persone alla quali manca la consapevolezza d'essere l'umile fango nel quale nasce la vera bellezza.
Nulla tuttavia m'induce a credere che io possa pienamente sposarne il senso; non certo attualmente impantanata come sono in quella che tu definisci "poesia dell'anima" o "poesia che non va" ovvero ancora "pietosamente poesia dell'autoinganno" (definizione quest'ultima davvero efficace), né d'altra parte che io possa farlo in futuro.
Sposare l'atteggiamento critico contenuto nel tuo scritto in ogni suo enunciato infatti significherebbe abdicare rispetto a scelte che permeano, o comunque di frequente emergono in modo diretto o indiretto, nelle espressioni letterarie di un autore che parla d'oltre e d'assoluto, scelte che non sono atteggiamenti e costruzioni di stile ma costituiscono il substrato della propria formazione morale e spirituale e dei propri convincimenti interiori.
In primo luogo per un poeta dell'anima significherebbe disconoscere il credo, tanto radicato e profondo quanto cieco, ottuso, deprecato, orgoglioso, presuntuoso (così almeno secondo possibili definizioni di coloro che non credono) dell'esistenza di un'esistenza trascendente, che poi significa ammettere l'esistenza di una parte umana non corporea, e quindi di un'anima, che poi significa pure credere nell'esistenza di un essere creante, eterno, onniscente, onnipotente. Nel loro insieme o, a seconda delle circostanze, presi in considerazione ad uno ad uno, questi convincimenti rappresentano quell'Altrove "che da qualche parte deve pur stare, quasi certamente di celeste" che tanto spesso appare nella poesia e nell'espressione letteraria in genere, che tante volte costituisce il rifugio dal dolore, la speranza in un regno che debba venire o sia da raggiungere o, se si vuole, più pragmaticamente e laicamente, debba essere costruito su questa terra, dove impereranno supreme: pace, giustizia e verità, e ancor prima e più importante di tutti Amore, ovvero l'interesse di tutti, oppure di Uno, per tutti, in dosi tali da soddisfare pienamente quell'inesauribile bisogno di tutti. Insomma un'utopia in terra e una speranza, non so quanto fondata, in cielo, ma comunque la si metta si tratta pur sempre di un Altrove in contrasto appunto al mondo reale che appare sempre più truce, orrido, in rovina, (rovina che è un continuo divenire, intensificarsi, precipitare senza fine da secoli e secoli) che tale appare spesso, se non costantemente, anche agli occhi dei poeti dell'anima.
Del resto mi sembra che una poesia dell'anima esista da sempre, dal suo stesso nascere come genere, probabilmente perchè nella ricerca interiore l'uomo non può prescindere dal confrontarsi con argomenti che non hanno risposte in termini di prova e certezza e, pur quando siano affrontati con fede, conducono a convinzioni che si alternano sempre a fasi di dubbio; il dubbio apre la strada al desiderio, alla tensione, all'aspirazione e, per questa via, alla poesia dell'anima che, pur quando sia espressa in termini di certezza, tale quindi da apparire una "verità assoluta", rappresenta sempre, o almeno frequentemente per quel che mi riguarda, un sogno, una visione, una proiezione, una speranza d'eternità.
D'altro canto non è il fatto di negare il valore della poesia dell'anima a riportare certamente e per converso la poesia ad essere una poesia "d'ora e di storia" (bellissima definizione anche questa); una poesia di divenire e negazione di verità assolute, che si rapporta al presente, alle individualità, al circostante, poesia del relativismo e delle tenebre contro la poesia della luce che è appunto la poesia dell'anima, quella che non va. Non è detto che il solo fatto di rapportarsi così diversamente al presente ed alla poesia di per sé sia utile a fare della poesia e una poesia che vada. Casomai questo permetterebbe una poesia più vicina al presente Non è detto che sia questo presente giusto il tempo di una poesia delle tenebre o per meglio dire, solo di tenebre.
Perchè non pensare invece ad una poesia di tenebre e luce, di ora e d'allora, di presente e di storia, di verità e dubbio, d'assoluto e d'orrore. Una poesia che sia esattamente com'è l'uomo: una mescolanza inestricabile d'eccelso e di fango, d'escrementi di cane e polvere di stelle? Perchè costringerlo sempre e comunque a strisciare raso terra, a confrontarsi con la realtà, a vederla quale essa è, a non poterne e volerne una diversa attuale o futura, empirica o trascendentale comunque migliore? Perchè impedire allo spirito di volare, oltre il dubbio, l'incertezza, il dolore, la nefandezza di cui l'essere umano, è capace, anche se questo significhi rifugiarsi nell'illusione? Non è forse dalla fantasia, dall'immaginazione, dalla speranza, da quelle che in definitiva gli increduli definiscono illusioni, che muovono le più grandi rivoluzioni? Privilegiare uno sguardo di disincanto e crudezza, di praticità e realismo non significa ancora di più costringere il pensiero a volare basso a guardarsi nella pienezza della propria infamia impedendo qualunque forma di catarsi, liberazione, speranza o illusione di riuscire ad essere o diventare noi stessi (singolo e collettività) migliori?
Non ti sembra che, posta in questi termini, la poesia dell’anima diventi la più radicale forma di dissenso politico?
Diverso il discorso sul cercare altri e nuovi modi di far poesia dissidenti o alternativi o relativisti, minimalisti o di debole pensiero, scientemente votati a negare ogni afflato lirico, verticalità e intimismo e preferire una ricerca che
“Non sempre trova rime
che siano adeguate
a disporre sul foglio
le stime meditate”
e
“discorsi nuovi
che non sian triti enigmi
vuoti rebus e sciarade
d'una sciatta retorica
che sfiata, stracca e vecchia.”
E’ libera la strada della ricerca e non è una sola e molte strade devono essere battute per trovare una via maestra.
D’altra parte ritengo (secondo i saggi insegnamenti di Stefano dei quali ahimè spesso constato sulla mia pelle la verità) che ogni qual volta si cerchi di fare della poesia strumento nelle mani dell’autore essa perde gran parte del suo fascino per diventare arnese e dunque materia pratica piuttosto che eletta, efficace più che maledetta, né ombra né luce ma realtà e presente, singolarmente rigida incapace di decollare, trasportare, coinvolgere. Materiale inerte forzato entro i limiti angusti dell’idea/ideologia che si vuole esprimere. Non intendo ovviamente che la poesia non possa avere forti messaggi politici, ma non sarà bella poesia quando essa sia strumento nelle mani del poeta bensì lo sarà quando nell’intimo, nel profondo, nel costante pensiero del poeta, di quel poeta, alberga potentemente l’esigenza di manifestare il dramma che lo squarcia, l’ansia che l’attanaglia, la protesta che lo rode e che si fa in parole poetiche preciso messaggio politico/ideologico, tanto più forte e coinvolgente quanto forte è l’esigenza che macera l’animo dell’autore.
Diverso ancora e infine il discorso di coloro che fanno poesia dell'anima e perciò stesso ritengono d'essere una categoria d'eletti (credo d'aver già espresso il mio pensiero circa un'elezione che più che altro ai miei occhi, in un vero poeta, appare piuttosto come una "maledizione) che chiusi in esclusiva casta guardino con disprezzo il mondo degli "altri" ".
In verità quando far poesia diventi un atteggiarsi, un porsi in maniera superiore altezzosa rispetto agli altri, allora davvero di poeta e poesia non è rimasto più niente in quel gruppo di presunti "eletti" se non un saper districarsi con artificio nell'uso delle parole e dintorni alla ricerca di una bellezza delle parole che è falsa perchè muove dall'aridità del cuore e delle mente di persone alla quali manca la consapevolezza d'essere l'umile fango nel quale nasce la vera bellezza.
1 Commenti:
ogni cosa qui è utopia, ciò che appare reale invece è il vuoto
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page